La prima invernale sul diedro Nord del Piccolo Mangart di Coritenza

Renato Casarotto
Delle salite invernali ho una mia concezione ben precisa, alla quale mi attengo con fedeltà: non deve essere un modo per far scrivere il mio nome su una scalata che si effettua in un mese diverso da quelli in cui si sale normalmente la montagna. L’invernale, per essere veramente tale, deve avere una sua peculiarità, cioè essere una salita nuova per chi l’affronta, e di conseguenza non già conosciuta in precedenza, durante la stagione estiva. Solo così l’invernale diventa diversa dalla semplice ripetizione e conserva il fascino del rischio unito alle difficoltà che si esprimono nel grado più alto.
L’invernale richiede all’alpinista tutta la sua esperienza e un allenamento costante sia sotto l’aspetto fisico che sotto quello psicologico. Scalo d’inverno solo se mi sento coerente con questa opinione, con la convinzione che solo in questo modo si può trovare la soddisfazione di una prima assoluta, come l’inverno scorso sul Bianco. Non potevo quest’anno cercare di meno, tanto più che già da tempo mi maturava in mente il progetto forse fin troppo ardito: il gran diedro Nord del Piccolo Mangart di Coritenza, una montagna che 4 anni fa avevo intravvisto attraverso le nebbie. Il Piccolo Mangart, 2393 metri, costituisce una delle cime più note delle Giulie, assieme al Jof Fuart, Jof di Montasio, Véunza e tante altre. A torto le Alpi Giulie sono trascurate dall’alpinismo classico, perché in esse esistono eccezionali attrattive alpinistiche e l’accesso è relativamente comodo. Le scalate sono molto severe e impegnative, perché si svolgono su roccia compatta, roccia con fessure cieche, scarse, dove pochi chiodi possono essere utilizzati. L’inverno presenta un ambiente isolato con le più rigide temperature: infatti l’alpinismo invernale nelle Alpi Giulie rimane un fatto sporadico. Tutte queste componenti mi attirano. C’è particolarità, originalità, ignoto. Sul Piccolo Mangart esiste il più grandioso diedro delle Alpi. Questa via ha una storia di tentativi che vede interessanti nomi illustri. Questo diedro, imponente, alto ben 800 metri, venne salito per la prima volta dal tristino Enzo Cozzolino nel 1971.
Da quattro anni il diedro del Piccolo Mangart rimane nella mia mente.
Ed ora vi sono finalmente di fronte.
Quello che sento non è una impressione di impotenza, ma il desiderio di potermi cimentare con questo colosso. Confermate le condizioni meteorologiche favorevoli per il mio tentativo, il 30 dicembre 1982 inizio la scalata. La montagna mi è del tutto nuova, e pertanto non posso prevedere i punti di bivacco. Parto con fiducia, ma non convinto di poter portare vittoriosamente a termine il mio tentativo. Dalla Capanna del Cacciatore all’Alpe Vecchia, a quota 1500 metri, mia moglie Goretta seguirà con il binocolo la mia lunga fatica che durerà ben 11 giorni, con dieci bivacchi. Il primo giorno è veramente promettente, perché mi consente di guadagnare 150 metri degli 800 del diedro. Poi la scalata si fa sempre più impegnativa e i metri si riducono a 80, a 50, fino ad arrivare a soli 20, il sesto giorno. Bivacco normalmente sul fianco della montagna, mentre intorno a me la temperatura scende a volte notevolmente sotto zero fino a —25° e a —28°. Mi consolo che da queste parti negli anni peggiori il mercurio segna anche —35°! Senza dubbio è una delle zone più fredde delle Alpi. Al termine del sesto giorno posso riposarmi più comodamente in una piccola piazzola che ho ricavato sgombrando, dopo alcune ore di lavoro, a colpi di piccozza, la parete dalla neve ghiacciata. La neve ostacola la mia ascesa: in alcuni punti si accumula incrostata per mezzo metro, devo toglierla con il martello da ghiaccio per poter progredire nel gran diedro che si articola in camini e pareti. Al nono giorno sono talmente impegnato e concentrato che a fatica mi accorgo grazie a un chiodo lasciato in parete di essere già arrivato alla variante Della Mea. Su tutta la via ho incontrato soltanto quattro chiodi. Il penultimo giorno della salita nevica. Il brutto tempo non mi disorienta. Ormai avverto che la cima è vicina: infatti alle ore 9,30 del giorno seguente la raggiungo. Mi sento finalmente appagato. Undici giorni sono lunghi da affrontare in solitudine su un percorso difficile e con un freddo che ne aumenta la durezza fino ai limiti del possibile. Ho dovuto lottare anch’io contro la tentazione di lasciare perdere e di ritornare al comodo di una casa e di un po’ di calore. Il mio bagaglio di circa 50 kg. comprendeva: 2 corde da 50 metri ognuna, di 11 mm di diametro, 20 chiodi, alcuni moschettoni, ramponi, piccozza, martello da ghiaccio, scarponi doppi di plastica, tendina da bivacco in Gore-Tex; più gli alimenti e l’abbigliamento. Verso le 10,30 del 9 gennaio 1983 inizio a scendere, in territorio jugoslavo, con tre magnifiche doppie. La sera stessa sono a Tarvisio. Vengo eletto cittadino onorario da quella gente che in numero sempre crescente ha seguito la mia salita. Mi sento uno di loro ed anch’io sono contento di essere riconosciuto per tale. Sono grato a loro, in particolare a Silvano a Nazzareno, a Roberto, a tutti coloro che hanno sacrificato volentieri del loro tempo. Questa magnifica gente mi entra nel cuore e non la dimenticherò più. Voglio ritornare presto tra loro per parlare, per sentirmi tra amici, e per salire le pareti delle loro belle montagne.
Da «Alpinismo Goriziano» Gennaio - Febbraio 1983.